Dei pani

Il pane buono nasce dalla terra.
Il pane è, nei fatti, un prodotto della terra.
Lo sanno i contadini, i mugnai e, talvolta anche i panificatori. Quasi mai lo pensa chi il pane lo consuma o chi ne parla e scrive. Eppure, i principali ingredienti vengono da lì: cereali, acqua, batteri e lieviti, sale (che spesso arriva da miniere).
Coltivare la terra è notoriamente faticoso ed anche alquanto complesso: se piove troppo o troppo poco, se arrivano insetti e/o uccellini buongustai, se divampa un incendio, se soffia vento forte, se le sementi sono giuste o no, se le concimazioni sono state adeguatamente recepite, eccetera.
Con questi non pochi se, quando gli agricoltori riescono ad ottenere risultati di qualità, possiamo tranquillamente definirli degli eroi. E di eroi, in agricoltura, ce ne sono sempre meno perché, alla fine, sono sempre più quelli che gettano la spugna e fanno l’agricoltura facile e massificata.
Mentre l’agricoltura sapiente e ragionata richiede fatica e rischi, anche se realizza prodotti di maggior qualità.

Il pane buono si fa coi cereali buoni.
Farro, grano tenero, grano duro, segale e orzo, sono i principali cereali utilizzati per la produzione di pane, in quanto favoriscono naturalmente il glutine necessario alla lievitazione.
Amaranto, mais, miglio, riso, quinoa e grano saraceno (questi ultimi due sono “falsi” cereali), non sono adatti alla panificazione diretta.
Tutti i cereali attualmente conosciuti, sono stati ottenuti da selezioni (durate, a volte, centinaia se non migliaia di anni) che avevano ed hanno come obiettivi sia l’aumento della resa/produttività, che la resistenza, che l’adattabilità a climi e terreni diversi, che al miglioramento delle caratteristiche organolettiche.
Ottenere buoni cereali, dipende da fattori ambientali, colturali, culturali e imprenditoriali (ma anche fatali) che ruotano intorno alle qualità del contadino.
Il detto “chi ben inizia è a metà dell’opera”, qui, vale addirittura doppio: cereali ben coltivati, raccolti e immagazzinati con cura, fanno la differenza anche sulla tavola.
Sembra banale ma non lo è.

Il pane buono si fa con la farina buona.
Se la qualità dei cereali è importante, quella della farina è indispensabile, in particolar modo se nella panificazione si utilizza il lievito naturale a pasta acida (da non confondere col lievito madre, che è una procedura).
Passare dal cereale alla farina, ad una buona farina, richiede moliture non invasive, a basse velocità di produzione, garantite essenzialmente da piccoli mulini: farine artigianali per pani artigianali.
Le farine artigianali hanno caratteristiche organolettiche e componenti di maggior qualità e pregio rispetto a quelle realizzate con produzioni massive (ma scontano il difetto di essere più difficilmente conservabili: è il prezzo della semplicità produttiva). Per quanto riguarda il grano, i pani legati alla tradizione territoriale utilizzano farine di grano tenero 0, 1, 2 (più è piccolo il numero, più la farina è raffinata e, quindi, povera di nutrienti), integrali e semole per il grano duro.
Senza una buona farina si fa un pane qualunque, che dura, profuma e sa di meno.
E un pane qualunque si ottiene facilmente, perché una farina qualunque necessita di additivi non finalizzati alla produzione di buon pane bensì di un pane che si faccia più facilmente.

Il buono del lievito naturale.
La lievitazione nel pane, si può attivare per via chimica, biologica, fisica. Nella panificazione di qualità tradizionale, si usa essenzialmente la lievitazione biologica, che si ottiene o con lievito di birra (fermentazione alcolica) o con lievito naturale a pasta acida (fermentazione acido-lattica).
I due tipi di lievito sono molto diversi:
Lievito di birra si ricava industrialmente su melassa di risulta della lavorazione dello zucchero da barbabietola e contiene unicamente fungo Saccharomyces cervisiae.
Lievito naturale si ricava direttamente (ogni panificatore produce la sua specifica pasta acida) dalla miscela di farina ed acqua lasciata fermentare spontaneamente (o con l’aggiunta di elementi ricchi di batteri e zuccheri), contiene diversi tipi di fungo Saccharomyces e Candida ed inoltre batteri lattici del genere Lactobacillus. La farina impastata con acqua fa sviluppare il glutine, agglomerato di proteine capaci di contenere gas senza spezzarsi: una buona quantità di glutine è indispensabile per contenere l’anidride carbonica sviluppata nella lievitazione da funghi e batteri.
Il lievito naturale va rinfrescato periodicamente con aggiunta di farina ed acqua.

Si fa presto a dire naturale.
Una volta disponibili i lieviti, di birra o naturale, si può passare alla lavorazione vera e propria dell’impasto del pane, attraverso la miscelazione di lievito e farina.; L’impasto può essere diretto o indiretto.
Nell’impasto diretto, lievito, acqua, farina ed eventualmente sale vengono miscelati direttamente per la successiva lievitazione finale.
Nell’impasto indiretto si realizza un primo impasto di farina, acqua e lievito; l’impasto può essere più liquido (poolish) o meno liquido (biga) e, in entrambi i casi più lunga è la lievitazione che si vuole ottenere, minore la quantità di lievito da usare.
Ottenuta la massa necessaria, si passa alla lievitazione che, solitamente, supera le 8 ore. In alcuni tipi di pane, questo procedimento viene ripetuto fino a 3 volte.
Il pane ottenuto dai due tipi di lievito, dal punto di vista organolettico, sensoriale e metabolico risulta profondamente diverso. I pani tradizionali realizzati con lievito naturale sono strutturalmente più gustosi, profumati, durevoli, digeribili.

Diversità e saperi artigiani.
C’è un paradosso tra gli ingredienti di buona parte del pane artigianale: la farina industriale. Sempre più spesso i piccoli produttori si accontentano di essere semplici amalgamatori di ingredienti industriali, non considerando che così dequalificano una caratterizzazione professionale secolare, che tutti noi perdiamo il pane buono, che l’economia sociale ne risente profondamente.
Tra artigianato e industria c’è da sempre una vivace concorrenza: ognuno con caratteristiche, profili e scopi diversi, realizza manufatti destinati a consumatori diversi. Cambiano le logiche produttive ma anche culturali: il superlativo, per definizione, si trova nelle piccole produzioni artigianali, che si basano su sapienza e cura dei più piccoli particolari.
Nel pane ci vorrebbero più artigiani veri, perché per fare il pane ci vuole tempo, pazienza, costanza, sapienza: il pane buono si fa solamente così.
Il pane buono e che fa bene non conosce scorciatoie. Il pane come s’ha da fare il pane ha bisogno di pazienza, la pazienza di chi lo produce ma anche di chi lo consuma: un pane ben fatto non si riconosce appena sfornato ma dalla capacità di conservarsi per almeno una settimana dalla produzione.

Il pane buono deve essere informato.
Siccome un po’ tutti mangiamo il pane fin da bambini e siccome il pane “che ci vuole a farlo” e siccome il “mio pane è migliore del tuo”, diamo per acquisita la nostra competenza su uno degli alimenti, invece, meno conosciuti ed oltretutto contaminato da pregiudizi e luoghi comuni.
A partire dai consumatori e poi dai negozianti, dai ristoratori, dai giornalisti e, spesso, dagli stessi fornai.
Per sapere se nel pane che vogliamo acquistare, tutti hanno svolto al meglio il proprio compito (contadino, mugnaio, fornaio, commerciante), basterebbe avere le idee chiare grazie anche ad una buona informazione.
Nella grande melassa dell’informazione che fa opinione ma non rende consapevoli, occorre sempre porsi qualche domanda in più oltre la superficie.
Ne proponiamo alcune di base.
Da dove vengono e chi ha fatto frumento e farina?
Il lievito è a pasta acida o è un altro lievito?
Oltre farina, acqua, lievito (ed eventualmente) e sale, quali altri ingredienti sono stati aggiunti e a quale scopo?
Un pane può durare meno di una settimana?
Dopo 2-3 giorni ha ancora aroma di pane?

I disegni, sono di Tonino Risuleo: www.risuleo.com